Che cos’è la consulenza filosofica?

JugendstilPremessa
La CF, come la filosofia del resto, s’istituisce a partire dal mezzo del linguaggio, ovvero della parola. Più precisamente, la CF s’istituisce a partire da un dialogo, ed è, di fatto, un dialogo che intrattiene un consulente e un consultante intorno a una problematica portata dal consultante. Come ogni dialogo, la CF si struttura, pertanto, a partire dall’esperienza del dare e ricevere la parola, da un lato, e nella parola ha il suo medium fondamentale, dall’altro. Lo spazio tra il dare e il ricevere la parola che intrattiene consulente e consultante è lo spazio dell’ascolto, da un lato, così come la parola, che nella CF assurge a medium fondamentale, diventa oggetto di particolare attenzione.  Con questo emergono due questioni di sicura rilevanza per la CF: come avvenga l’ascolto durante la CF e che valore abbia la parola nella CF.

L’ascolto
L’ascolto in CF, come in ogni dialogo autentico, del resto, deve essere il più libero e aprente possibile: partecipato, ma non guidato dal consulente, che è chiamato a porsi in un atteggiamento ricettivo ma attento, in una sorta di “passività originaria”. La “cosa”, ovvero, la problematica, viene portata dal consulente, e il consultante segue. Nella CF non c’è direzione preimpostata: il dialogo della CF non è strategico. Le domande del consulente intendono aprire il discorso, non chiudere la partita. Il consulente deve ben guardarsi da eventuali intuizioni o “colpi di scena” con cui egli, specie se alle prime armi, potrebbe ritenere di aver “inquadrato” il consultante o aver “risolto” la problematica. Non c’è niente di peggio di questo “inquadrare”, spesso frutto solo del “pregiudizio” e della “prima impressione” per inquinare l’ascolto, condizione di possibilità di una conversazione autentica in CF (e non solo).

La parola
È convinzione di alcuni consulenti filosofici (Zampieri) e anche di chi scrive che se la parola è il medium fondamentale della CF possa essere opportuno allora sostare in alcune situazioni sulla medesima, ovvero sulle parole che il consultante adopera. Tali parole sono infatti lo strumento con il quale il consultante articola e, in maniera più o meno riflettuta, definisce la sua visione del mondo. A monte della problematica portata dal consultante (es: la sensazione di vivere una vita inutile)  si trova una più o meno esplicita definizione che il consultante si è dato su cosa sia, per restare aderenti all’esempio, “una vita inutile”. In questo senso il consulente può esprimere una richiesta di chiarimento, anche nella forma di una richiesta di una definizione (“che cosa intendi per?”, “che cos’è (per te) x”?), il cui scopo è ben lungi dall’essere un “esercizio scolastico” con cui il consulente salirebbe in cattedra per interrogare il malcapitato consultante, ma, al contrario, è un input che il consulente offre affinché il consultante prenda maggiore consapevolezza del proprio linguaggio, e, con esso, delle proprie visioni del mondo (Lahav), fluidificandole (Zampieri), e eventualmente ampliandole.

Confilosofare, non: avere una filosofia
Da questi primi accenni emerge come il consulente sia esortato a compiere un esercizio non facile: “filosofare” (anzi: confilosofare insieme al consultante), in luogo di “avere una filosofia”. Questo impone al consulente di fare epochè, ovvero di essere munito della capacità di mettere in parentesi se stesso. Per poter ascoltare, infatti, il consulente deve imparare non solo a tacere a ad ascoltare con quella “ricettività attiva” sopra ricordata, ma anche a mettere in parentesi i suoi valori, la sua visione del mondo, in altre parole: “la sua filosofia”. Di contro, il consulente è invitato a seguire la problematica portatagli dal consultante, dove la problematica che egli porta è spesso impastata in maniera (per il consutante) indissolubile dalle interpretazioni, sovente valoriali, che egli dà della medesima – ovvero: a confilosofare insieme al consultante. Si impone quindi un’antitesi tra una filosofia come processo (“filosofare”) e una filosofia come riflessione sedimentata in cui il consulente (ma anche il consultante) è “di casa” nel suo guardare al mondo (“avere una filosofia”) (Pollastri).

Epochè del consulente e del consultante
A questo punto possono sorgere diversi interrogativi. Primo fra tutti: fino a che punto deve spingersi il “non avere una filosofia”, ovvero l’epochè del consulente? Certamente il consultante non ha vantaggio alcuno nell’essere di fronte a una parete di vetro, ovvero un’epochè assoluta del consulente.

L’epochè è necessaria, tanto per il consulente quanto per il consultante. Per il consulente, in quanto lo conduce ad assumere quell’atteggiamento avalutativo senza il quale l’intera CF è falsata, viziata all’origine. Non meno centrale è l’epochè per il consultante. Ma in un modo totalmente diverso rispetto all’epochè del consulente. L’epochè del consultante è spesso, infatti, un risultato raggiunto attraverso la CF, e non uno stato antecedente gli incontri di CF. Intendo dire: quel mettere in parentesi è il frutto più maturo, per il consultante, di tutto un mettere in discussione una serie di giudizi, valori, visioni del mondo che fino a quel momento lo avevano condotto, in maniera più o meno consapevole nel suo orientamento esistenziale. In questo senso la CF agisce come messa in questione dell’ovvio, dell’irriflesso, del dato per scontato. (cf. Achenbach: vivo ciò che penso? vs. penso ciò che vivo?)

Il tempo opportuno
Questa esperienza può essere spiazzante. Il consultante può non essere pronto a quel mettere in discussione se stesso e il suo orientamento esistenziale che la CF gli sta proponendo. Per questo motivo ritengo particolarmente importante che il consulente sappia capire quando è il momento dato. Intendo: il momento dato per fare una certa domanda, per portare a emersione un nodo, una contraddizione, un conflitto di valori. Potrebbe essere troppo presto, e il consultante non essere ancora pronto. Il consulente, credo, deve imparare l’arte del tempo opportuno, del non avere fretta, in definitiva della lentezza, senza le quali nessun ascolto autentico ed effettivo può aver luogo.

CF: Un discorso senza fini, modelli, né metodi
Tutto questo è tanto più importante in un discorso, quello della CF, che ha come proprio tratto distintivo quello di non essere finalizzato. Assunto fondamentale: in CF non ci sono fini preimpostati, modelli cui tendere, ideali da raggiungere. Non c’è un’idea di Bene o di Male, perché, ancora una volta, la CF è confilosofare, non “avere una filosofia”. Questo è un potente tratto di distinzione della CF, che la distingue in maniera inequivocabile da ogni forma di psicologia, coaching o di direzione spirituale (Perimetazione Phronesis). Non c’è un’idea di “salute” cui tendere, un modello di “successo” da raggiungere, una concezione di “vita buona” vincolante. In questo senso la CF è “la bonifica dei bisogni, non la loro soddisfazione” (Achenbach). Essa non fornisce strumenti per raggiungere mete (non è problem-solving), ma aiuta il consultante a riflettere se tali mete siano davvero degne di essere raggiunte, e in cosa esse davvero consistano (sempre per il consultante).

Mancando fini, modelli, mete cui tendere assiomaticamente, ne consegue che la possibilità di avere un metodo non è compatibile con lo spirito della CF. Siamo di fronte qui a una delle questioni più complesse della CF, su cui tornerò in seguito.

Avalutatività, non relativismo
La CF è pertanto avalutativa. Qualcuno direbbe: relativistica, trasformando l’epochè summenzionata in un anything goes, un “tutto può andar bene”. Chi sostiene la CF come forma di relativismo la collega al contesto postmoderno di inizi anni Ottanta del secolo scorso in cui Achenbach dette avvio alla propria attività di Philosophische Praxis. Avalutatività, comunque, non significa relativismo (Frankena, Hare). Certo, il consulente testimonia dinanzi al consultante che non esistono stili di vita preferibili ad altri, né obiettivi migliori di altri, né ancora valori apprezzabili rispetto ad altri deprecabili. Ma questo non per una forma di “pensiero debole” che congeda l’idea di verità. Al contrario: l’avalutatività della CF permette al consultante di far emergere e di appropriarsi della sua verità. In questo contesto, è stata formulata la nozione di “verità locale” in CF (Zampieri).

Aspetti emancipatori e politici della CF
Grazie al suo carattere avalutativo e non finalizzato, la CF scardina diversi miti, idoli e feticci del nostro tempo. Mostra quanto i canoni di preferibilità siano costruiti in un quadro sociale. In questo primo senso la CF è emancipatrice. La CF fa infatti prendere consapevolezza al consultante di non essere un’isola, ovvero un soggetto autoprodottosi, ma che la nostra esistenza in quanto tale è sempre e da sempre sita in un  mondo carico di messaggi e di valori, che spesso lavorano come veri e propri imperativi – come quelli di performatività, di eccellenza, di bellezza, di benessere, di successo. Aiutando il consulente a prendere maggiore consapevolezza del carattere relativo e socio-costruito di tali imperativi, la CF li depotenzia, e svolge una funzione liberatoria, emancipatrice. Al vecchio dogma la CF non ha nulla da sostituire, se non un’accresciuta libertà. Per tutti questi motivi, la CF è politica (Pollastri), nel senso aristotelico-arendtiano del termine. Essa ricolloca il consultante in orizzonte di intersoggettività originaria, quello del legame sociale, più ampio della cura, spesso, acosmica ed egoriferita, del proprio sé (Furedi).

Libertà e unicità del singolo
La CF accresce la consapevolezza, e la consapevolezza accresce la libertà. Libertà da e libertà di (Berlin). Cionondimeno, ripeto, la CF non instilla dogmi, né ha certezze a sua disposizione da poter dispensare. Per questo è così “inattuale”, in un mondo che cerca risposte, spesso preconfezionate, consolatorie, autoreferenziali. È inattuale perché non “risolve problemi” con un kit di soluzioni e una metodologia in fasi con cui potrebbe vendersi come (pseudo)scienza – sebbene c’è chi l’abbia fatto, chi con dubbia serietà (Marinoff) chi con maggior rigore (Raabe). Ma come può esserci scienza di fronte all’unicità dell’esistenza umana che è in quanto tale è un che di unico e irripetibile? Sebbene la casistica ci mostri come vi siano dei “luoghi notevoli” all’interno della CF, veri e propri topoi motivi ricorrenti, ogni consulente è in quanto tale un essere umano unico e irripetibile. Per questo, anche una nozione come “carattere” difficilmente potrebbe aver senso in CF. Piuttosto, ogni persona ha una certa “postura”, un certo modo di stare al mondo, di collocarvisi, di porsi in relazione ad esso. Non è forse questo uno dei modi con cui possiamo tradurre il termine greco ethos? Malgrado le succitate forze di eterodirezione e i più quieti (ma non meno insidiosi) fattori di condizionamento culturale, il consulente è assunto come un essere umano libero, e che il percorso di CF può contribuire a far progredire nella propria esperienza della libertà.

La decisione
Spesso il consultante si presenta per una decisione. La vita, del resto, incontra sistematicamente l’esperienza del decidere, ed è questo, del resto, l’atto per eccellenza dell’etica, e che al tempo stesso l’atto che ci attesta come liberi agenti.  Di fronte a un consultante che deve prendere una decisione, il consulente deve prestare particolare attenzione a non dare consigli, a non assumere il ruolo dell’amico saggio, a non assumere atteggiamenti problem-solver. Al contrario, è chiamato a stare su quanto gli viene offerto dal consultante, e semmai a porgli alcune domande di chiarimento, che potranno assumere la forma del “cosa intendi per?” per realizzare quanto sia nitida o contraddittoria l’immagine della problematica proposta dal consultante.

La coerenza
Al tempo stesso, però, il consulente non è un catalizzatore di coerenza. Non si tratta di ridurre a sistema l’esistenza individuale di ogni singolo consultante. Ma si tratta di portare a emersione dei nodi, delle priorità confliggenti, degli anelli che non tengono, e che nel loro stridere generano dolore.